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martedì 29 novembre 2016

Insalata di rape rosse e germogli misti.




Amici a cena, apro il frigo e trovo le rape rosse sottovuoto e i germogli...unisco un altro paio di ingredienti e nasce questa insalata fresca e ricca di vitamine!

Ingredienti:

  • 4 rape rosse sottovuoto
  • Un arancia intera
  • Un arancia spremuta
  • 100 gr di mandorle
  • Una manciata di germogli misti (io ho usato soya, ravanello e lenticchie)
  • Sale, pepe
  • Olio exrtavergine d'oliva.
Tagliare a cubetti la rapa, a pezzettini l'arancio e spezzettare grossolanamente le mandorle. A parte preparare una vianagrette  emulsionando il succo d'arancia con un cucchiaio d'olio e un pizzico di sale. In una ciotola unire tutti gli ingredienti aggiungendo i germogli, condire con la vinagrette e spolverare con il pepe..




Song: "Oh! You pretty thing" Davide Bowie



«Non riuscivo a dormire, erano circa le quattro del mattino. Mi ero svegliato con questa canzone che mi ronzava in testa. Mi sono dovuto alzare dal letto e suonarla, per liberarmene e tornare a dormire». Oh! You Pretty Things fu una delle prime tracce di Hunky Dory ad essere composte e inizialmente venne scritta con l'idea di farla registrare al cantautore statunitense Leon Russell. Fu probabilmente anche la prima canzone composta da Bowie al pianoforte piuttosto che alla chitarra dal momento che ne fu realizzato un demo negli studi di Radio Luxembourg verso la fine del 1970. Bowie torna su un territorio già esplorato l'anno precedente in The Supermen, nel quale aveva immaginato l'avvento imminente di una razza di uomini superiori con spiccati richiami alla filosofia di Friedrich Nietzsche. Il concetto viene ribadito in Oh! You Pretty Things, in cui le "cose graziose" del titolo rappresentano una specie più evoluta che alla fine stabilirà il proprio dominio soppiantando l'homo sapiens, secondo alcune fonti un possibile riferimento al periodo nazista e al desiderio di una razza pura su cui Bowie tornerà pochi anni dopo.
« Oh! You pretty things
Don't you know you're driving your mamas and papas insane
Let me make it plain, you gotta make way for the Homo Superior »
« Oh! Voi cose graziose
Non sapete che state facendo impazzire le vostre mamme e i vostri papà
Fatemi essere più chiaro, dovete trovare la strada per l'Homo Superior »
Negli "Homo Superior" si ritrovano riferimenti all'occultismo di Aleister Crowley e al racconto di fantascienza The Coming Race, scritto nel 1871 da Edward Bulwer-Lytton, nel quale viene descritta una specie molto progredita di quasi-umani che vivono nelle profondità della Terra e la cui civiltà superiore ha bandito le guerre, il crimine e le disuguaglianze. Durante la sua prima intervista per Melody Maker, rilasciata a Michael Watts nel gennaio 1972, Bowie disse che l'imminente razza di superuomini doveva essere guardata con ottimismo: «Saranno in grado di realizzare tutte le cose che noi non riusciamo a fare». Tenendo presente la sua passione per la fantascienza di serie B, è curioso notare che The Homo Superior in seguito divenne il nome della generazione di giovani telepatici protagonisti della serie The Tomorrow People, trasmessa dal 1973 al 1979 dal network ITV. Anche il nuovo ruolo paterno di Bowie potrebbe aver giocato un ruolo nella stesura del brano (il figlio Duncan sarebbe nato pochi mesi prima dell'uscita di Hunky Dory) interpretabile come una raffigurazione di ansia paterna e agitazione generazionale, una specie di coming out di un uomo che guarda di nascosto i bambini felici che giocano in strada, consolandosi del fatto che saranno condannati a loro volta. Il cantante rivelò durante la campagna promozionale dell'album: «La mia reazione all'annuncio che mia moglie era incinta rientrava negli archetipi del comportamento "da papà. La canzone contiene tutto questo più una spruzzata di fantascienza». Nel 1976, nel corso di un'altra intervista accennò anche all'aspetto più oscuro della canzone: «Moltissime canzoni in realtà hanno a che fare con qualche forma di schizofrenia  e "Pretty" era una di esse».

giovedì 24 novembre 2016

Vellutata di zucca e patate viola


La patata viola ha innumerevoli proprietà nutrizionali: il suo profumo ricorda la nocciola ma il sapore dolce si avvicina leggermente alla castagna. Io l’ho unità alla zucca e al porro per realizzare una vellutata che scaldare le vostre serate invernali..

Ingredienti

  • 10 patate violette
  • mezza zucca
  • brodo vegetale q.b.
  • olio extravergine di oliva
  • porro
  • pepe nero
  • Mezzo cucchiaino di curcuma in polvere
  • Sale



Preparare la zucca: rimuovere dapprima i semi, successivamente la scorza, facendo estrema attenzione a non tagliarsi con il coltello. A questo punto, tagliare la zucca a dadini piccoli e sistemarla in una ciotolina. Preparare le patate. Con l’aiuto di un pelapatate, sbucciare le verdure e tagliarle a piccoli pezzetti. Unire i dadi di patata a quelli di zucca. Tagliare il porro a rondelle.Nel frattempo, mettere sul fuoco una pentola capiente e, quando sarà molto calda, rosolare patate, zucca e porro con un filo d’olio. Dopo che la zucca e le patate iniziano a formare una leggera crosticina dorata, aggiungere l’equivalente di 2 bicchieri di brodo vegetale  nella pentola delle verdure. Aggiungere il mezzo cucchiaino di curcuma e un pizzico di pepe, mescolare velocemente e portare ad ebollizione. Chiudere la pentola con il coperchio e portare a cottura, mescolando di tanto in tanto, per circa 15-20 minuti, fintantoché le verdure avranno raggiunto una consistenza piuttosto cremosa. A fine cottura emulsionante il tutto con il frullatore ad immersione..

Song:"No one knows " Queen of the stone age

Ho un debole per Johs Homme..lo ammetto e a mio parere “Songs for the Deaf”, terzo album dei Queens of the stone Age, è sicuramente uno degli album rock più importanti e riusciti degli ultimi anni. Josh Homme recluta intorno a sé, oltre al bassista Nick Olivieri, due grandi pilastri del grunge: Dave Grohl (finalmente di nuovo alla batteria) e Mark Lanegan. L’album si apre con i rumori di una persona che entra in macchina e, preparandosi per un viaggio attraverso il deserto californiano, si sintonizza su alcune frequenze radio: dopo qualche parola del dj irrompono subito le inconfondibili rullate di Dave Grohl e comincia "You think I ain't worth a dollar, but I feel like a millionaire", una martellante e urlata canzone in perfetto stile “robot rock”. Segue il singolo "No one knows" un pezzo battente, ritmato e forse uno dei più divertenti dell’album con un ritornello irresistibile tra rullate isteriche e violenti chitarre stoner. Il tiro dell’album sembra non voler calare nemmeno alla terza canzone, First it giveth, la cui chitarra raddoppia la velocità e gli efficaci intermezzi spagnoleggianti servono a spezzare la ripetitività insana dei riff. Uno dei momenti più esaltanti è però "Song for the dead": la chitarra di Homme ripete ossessivamente una nota sola, la batteria di Grohl sembra inciampare incerta per poi lanciarsi in un ritmo veloce ed eccitante. L’atmosfera poi si fa più adeguata per una “canzone per i morti” ed entra la voce graffiante e profonda di un Lanegan che sembra tornato ai tempi degli Screaming trees. La canzone si conclude con il solito martellamento schizofrenico che però non riesce mai a stancare e la velocità delle bacchette di Grohl sembra non avere più limiti. Prendiamo un respiro con "The sky is fallin' (anche se i suoi imprevedibili cambi di tempo non ce lo consentono molto) e, passando per l’urlante Olivieri di Six Shooter e per Hangin' Tree arriviamo al momento più orecchiabile ma anche più interessante: "Go with the flow" (“I want something good to die for / to make it beautiful to live. / I want a new mistake, lose is more than hesitate”). Mano a mano l’album si fa più intimo con "Gonna leave you" "Do it again" e il blues malato di God is in the radio. La vena più “mariachi” è esplicitata nella splendida ballata "Another love song" ma è solo il canto del cigno prima di sprofondare nell’abisso della tetra e spaventosa "Song for the deaf". Dopo averci condotto negli inferi, il dj ci saluta e ci augura buonanotte lasciandoci con l’acustica ballata "Mosquito song". Inquietante anche la traccia fantasma The real song for the Deaf.Un rock puro, volutamente non raffinato, diretto e bollente come le sabbie del deserto californiano.

sabato 19 novembre 2016

Mele alla cannella con budino di cachi.


Questa ricetta è nata in un pomeriggio piovoso in cui avevo voglia di qualcosa di dolce da mangiare ma in casa avevo solo frutta..ci ho pensato un pò e  in mezz'ora è venuta fuori una merenda veramente goduriosa!

Budino di cachi

  • 1 cachi maturo
  • 2 cucchiai di cacao amaro in polvere.

Spellare un cachi  maturo,mettere la polpa in un contenitore, aggiungere due cucchiai di cacao amaro in polvere e ridurre in crema con il frullatore ad immersione. Trasferire il tutto in uno stampo per budino e mettere in frigo per 30 minuti trascorsi i quali non vi resta che assaggiare questa meraviglia!

Mele alla cannella

  • Una mela
  • 4 cucchiai di zucchero di canna
  • Il succo di un arancia
  • Un bicchiere d'acqua
  • Due cucchiai di cannella in polvere.

Dopo aver lavato e asciugato le mele con un panno da cucina , sbucciatele e tagliatele a rondelle.
Mettete lo zucchero in una casseruola aggiungete l'acqua, il succo d'arancia e la cannella e portate a bollore lasciandolo per 2 o 3 minuti.
A questo punto versate gli spicchi di mela, mescolate delicatamente e lasciate cuocere a fuoco basso.
Dopo aver cotto per 10 minuti le mele, toglietele dal fuoco e servitele con della frutta secca sbriciolata..

Song "Bang a gong" T-Rex


Il 1965 è l'approdo di un percorso esistenziale fantasmagorico per il diciottenne Mark Feld, ex-principe dei Mods londinesi e dandy barocco per vocazione. Il background a base di Elvis, insieme con altre piccole, vecchie e nuove divinità - Cliff Richards, Eddie Cochran, Bob Dylan, Syd Barret - come in un Olimpo costruito a propria immagine e somiglianza, è sobillato dall'emergere planetario di un nuovo, determinante e portentoso fenomeno: l'ascesa dei Beatles. Mark, acrobata sulla sottile linea di demarcazione tra realtà e fantasia, non teme certo di sfidare la possibilità, e, imbracciata la propria chitarra, inizia a bazzicare diversi studi di registrazione, con una manciata di cover - biglietto da visita. L'operazione non frutta alcun contratto, ma procura un manager all'ambizioso sognatore, Mike Puskin, autore del passaggio dalle speranze di Mark Feld alla determinazione di Marc Bolan, con una k in meno e un cognome nato probabilmente dalla contrazione tra lo stilista Bohan (un altro tra i molteplici eroi di Mark) e il songwriter Dylan. Il contratto tra i due dura un anno, durante il quale Marc incide per la Decca "The Wizard", primo singolo solista e delizioso psych-garage donovaniano, incrocia tra le quinte di un qualche programma pop un ancora sconosciuto Jimi Hendrix e si diletta a scrivere racconti fantasy. Il 1966 non è ancora finito, ma evidentemente Marc non ha bisogno di troppo tempo per ammaliare la gente: Simon Napier Bell è il suo nuovo manager, ed è che con lui che incide per la Parlophone "Hippy Gumbo", piccolo e ingiusto flop.
È il 1967, e Marc diventa chitarrista e corista dei John's Children, a cui ruberà immediatamente la scena, per poi andarsene dopo soli tre mesi e un infelice tour di supporto agli Who. Il nuovo vagabondaggio è segnato da un incontro illuminante, quello con il sitar di Ravi Shankar, da cui il ritorno di fiamma al rock acustico e un folle annuncio sul Melody Maker per cercare chitarra, basso e batteria. Il primo a rispondere è il percussionista e corista Steve Peregrine Took...Ecco a voi i Tyrannosaurus Rex! Tra il 1968 e il 1969, vengono realizzati "My People Were Fair and Had Sky in Their Hair... But Now They're Content to Wear Stars on Their Brows", "Prophets, Seers & Sages - The Angels of the Ages" e "Unicorn", sorta di saga in tre atti  dalla mirabile limpidezza acustica a narrare i più reconditi afflati di aria, terra, fuoco e aria col supporto di un impianto percussivo come gentilmente sostenuto dalle tantissime creature dei boschi che abitano la penna di Marc.
Lasciatosi alle spalle un 1969 segnato non solo da un cambio d'organico, ma anche da una crisi coniugale, risolta nella riconciliazione con una June Child al limite della devozione e un incrociare il proprio talento a quello del Bowie  dalla freccia magnifica di "Space Oddity" (per cui leggenda vuole che Marc suoni la chitarra in "The Prettiest Star), è tempo di alleggerire la nomenclatura, così da facilitare il lavoro ai dj in radio : i Tyrannosaurus Rex divengono, molto più agilmente, T. Rex. Gli abiti di scena si fanno scintillanti e la quantità di glitter con cui enfatizzare un aspetto già di per sé insolito diventa un segno di riconoscimento - tra i tanti - per meglio identificare Marc e la sua musica.
"T. Rex", nel 1970, non è che l'anticamera piacevole di ciò che sta per accadere l'anno successivo. Il training volto a dinamizzare il suono, sino all'epoca dei Tyronnosaurus Rex orgogliosamente abbarbicato alla frugalità dell'approccio acustico, riesce alla perfezione ed "Electric Warrior", nel 1971, ne diventa l'irripetibile saggio finale. Il progetto, irrobustito dalla progressiva ascesa e dal carisma irresistibile di Bolan, nasce già ambizioso: l'organico si amplia, con Steve Currie al basso elettrico, Bill Legend alla batteria ed un'incursione del produttore Tony Visconti ai violini. È come se l'elfo più bello del bosco avesse perso l'innocenza, divenendo consapevole del proprio fascino, amplificato da un fare innocentemente provocante, nella volontà di sedurre definitivamente il mondo. L'androginia smaliziata non allontana il pubblico, ma ne scatena ancor più violentemente l'immaginario. Tutti vogliono essere Marc, meno accidioso di Bowie e più viscerale del futuro Bryan Ferry.
Il glam-rock di "Electric Warrior" è luce per eccellenza, e saranno, qualche anno di là da venire, solo le infauste circostanze a gettarne le ombre. Il trampolino di lancio è  "Bang a gong (Get It On)", ed è immediatamente visibile il cambio di rotta verso un suono più denso ed elettrificato. I T. Rex di "Electric Warrior" sono una creatura nuova, sfrontata e vanitosa, giustamente vanitosa e Marc ha ormai archiviato l'antico languore silvestre, per lanciarsi in un vibrato sussurrato mordicchiando l'orecchio all'ascoltatore.
 Dopo è Gloria, di nome e di fatto. Marc, monarca assoluto tra piume e lustrini, cavalca l'onda del proprio ego, perdendone le coordinate e iniziando a sguazzare nella debolezza delle dipendenze. Malgrado il successo gli arrida ancora per qualche anno, la critica non è poi così magnanima con i suoi nuovi lavori, e alcool e droga sono lì a portata di mano.
Marc ricomincia dall'amore, costruendo ex-novo la sua vita con Gloria Jones, la bellissima vocalist della Northern Soul (la stessa dell'originale e poi abbondantamente coverizzata "Tainted Love" del 1964) conosciuta qualche anno prima in America.
La morte deciderà di affidare proprio a Gloria l'auto nella quale Marc compirà l'ultimo viaggio: la notte del 16 settembre 1977 - a un mese esatto dalla dipartita di Elvis - la Mini Gt viola su cui la coppia viaggia va a schiantarsi contro una quercia. La stella ha compiuto la sua traiettoria, troppo breve, seppur intensa, per lasciare qualche barlume di consolazione.

domenica 13 novembre 2016

Pancake con avena, banana e latte di cocco


Domenica mattina, tempo di brunch..e voglia di pancake. Questa volta ho provato ad usare la farina d'avena e il latte di cocco e il risultato mi ha soddisfatto molto!
  • 160 gr di farina d'avena
  • 1 pizzico di cannella in polvere
  • 1 pizzico di sale marino
  • 1 banana matura
  • 2 cucchiai di zucchero di canna
  • 1 uovo
  • 180 ml di latte di cocco

In una piccola terrina, unisci la farina di avena con lievito, cannella e sale. In un’altra scodella, schiaccia la banana mescolandola con lo zucchero .Aggiungi quindi l’uovo, e il latte di cocco . Versa il tutto nella miscela con la farina. Mescola fino a ottenere un composto omogeneo.Scalda un padellino su fuoco medio. Spennellalo leggermente con poco olio di oliva . Cuoci i pancake per 3-4 minuti su ciascun lato, fino a quando sono scuri e ben cotti.

Song "Dirty Water" the Standells.



L’effetto più immediato della Beatlemania fu quello di trasformare, in tutto il mondo, innocui gruppi di intrattenimento in piccole gang di teppisti. Successe anche agli Standells. Anzi, a loro più che a tutti gli altri. Nati nel 1962 a Los Angeles dall’incontro artistico tra Larry Tamblyn (fratello di Russ, il Riff di West Side Story e il Tony Baker di High School Confidential, tra gli altri, NdLYS) e Tony Valentino (al secolo Emilio Bellissimo, giovane emigrante siciliano finito a Los Angeles ad inseguire il sogno americano dopo un’infanzia vissuta a Cleveland, NdLYS), gli Standells (come dire, i disoccupati) sbarcano il lunario suonando musica da ballo nei club di Hollywood e delle Hawaii. Con loro ci sono Jody Rich e Benny King, presto rilevati rispettivamente da Gary Lane e Gary Leeds. Una band tra le tante che girano nel circuito dei night-club con un repertorio di standard dell’epoca. L’ingresso di Dick Dodd alla batteria e l’interesse dell’impresario Burt Jacobs frutta una serie interminabile di cameo cine-televisivi e temi musicali per svariate pellicole del periodo, da Get Yourself a College Girl ai mitici Munsters passando per Zebra in the Kitchen, Follow the Boys, When Boys Meet the Girls, Riot On Sunset Strip. L’anno della svolta è il 1966. La scoperta di Beatles e Rolling Stones e in generale di una via torbida al beat, unita alla creativa penna del produttore Ed Cobb fa degli Standells i nuovi “bad boys”. E’ proprio Ed a portare alla band il primo pezzo del nuovo corso. Si intitola "Dirty Water". Un titolo buono per un blues. Parla delle acque sporche di un fiume che si trova dalla parte opposta dell’America. Un posto dove nessuno degli Standells è mai stato: il Massachusetts. Ciò che è improbabile su carta diventa invece efficace su spartito: l’indimenticabile riff della chitarra di Valentino e la voce insolente di Dodd, assurto nel frattempo al ruolo di lead vocalist pur restando seduto dietro il drum kit della band, ne fanno un immediato inno pre-punk.
Uno di quelli destinati a fare la storia della musica moderna.
Sull’album che, secondo il costume dell’epoca, porta lo stesso titolo del brano-aratro, gli Standells mettono mano ad un repertorio che alterna pezzi originali scritti dalla band o da Ed Cobb a qualche cover sfrontata (19th Nervous Breakdown degli Stones, Hey Joe alla maniera dei Leaves e una Little Sally Tease reduce dalle vecchie notti al PJ‘s di Hollywood).
L’apertura è affidata a una delle cose migliori degli Standells Mark II, ovvero quella "Medication"che verrà poi traslocata da Cobb nel repertorio degli altri suoi super-protetti californiani Chocolate Watch Band. Avvolta da un basso rotolante, da un perpetuo e immobile suono d’organo e da un tremolo imparentato con l’effettistica cara agli Electric Prunes, "Medication"è un ottimo incipit ad un album mutevole per atmosfere e contenuti. "There Is a Storm Comin’" ad esempio si muove in prossimità della musica nera che la band ha consumato in dosi massicce nei primi anni di vita e che tornerà a frequentare negli album dell‘anno seguente.
"Rari", altro numero di Cobb, è un’espansa ballata psichedelica che vive del bell’arrangiamento di Lincoln Mayorga (compagno di avventura di Ed ai tempi dei Four Preps, NdLYS) mentre "Sometimes Good Guys Don‘t Wear White", ancora di Cobb, è un altro incalzante beat da trincea che diventerà una delle palestre più frequentate dai punk di tutto il mondo, dai Vacants ai Minor Threat passando per Sex Pistols e Count Bishops, in parte replicata pochi minuti dopo con "Why Did You Hurt Me?" scritta da Valentino e Dodd. Pride and Devotion scritta invece da Larry Tamblyn si muove in un più consueto vestito folk-rock vicino alle armoniose piogge dei Byrds.
L’esperienza maturata negli anni passati nelle sale da ballo a far muovere il culo alle sedicenni o ai militari di leva, permette agli Standells di Dirty Water di sfruttare la natura disomogenea della track-list per farne il proprio cavallo di troia per sfondare le porte delle charts.
Bravi ragazzi che non vestono in camicia. Capelloni tra una folla di colletti bianchi.


domenica 6 novembre 2016

Maltagliati ai carciofi e sedano rapa.


In questa ricetta ho voluto provare il sedano rapa..un ortaggio curioso e a me completamente sconosciuto!
 Il sapore è un pò più delicato di quello del sedano e la combinazione con i carciofi risulta molto gradevole.. ho scritto le dosi per fare la pasta a mano ma, ovviamente, vanno benissimo i maltagliati o le lasagne secche comprate al supermercato e spezzate grossolanamente !!!

Ingredienti:
  • 200 g. farina 00
  • 2 uova medie
  • un pizzico di sale
  • 3 carciofi
  • 100 gr di sedano rapa
  • 2 acciughe sottolio
  • cucchiai di olio extravergine d'oliva
  • 1 spicchio d'aglio
  • sale
  • prezzemolo
  • pepe nero
  • 30 gr di Parmigiano Reggiano
  • 1/2 limone



Preparate la pasta fresca: mettete sulla spianatoia la farina a fontana, aggiungere un pizzico di sale, una cucchiaiata di olio extravergine d'oliva  e le uova. Impastare fino ad ottenere un composto elastico. Coprire con un canovaccio e lasciare riposare una mezz'oretta.
Pulite i carciofi, lavateli in acqua e limone, tagliateli a metà e fateli a fettine. Sbucciate il sedano rapa e tagliatelo a cubetti. Tritate l’aglio e il prezzemolo, fateli appassire in un tegame con l’olio e le acciughe e unite i carciofi e il sedano rapa, salate e fate cuocere per circa 10 minuti aggiungendo poca acqua calda e un coperchio.Nel frattempo riprendere la pasta. Stenderla sottile col mattarello o con la macchina tirapasta. Ricavare delle strisce. Tagliare in modo grossolano (da qui il termine "maltagliati"). Fate cuocere la pasta in abbondante acqua salata .Scolate la pasta e mantecatela con il condimento preparato e aggiungete una spolverizzata di parmigiano.


Song: "Look what you've done to my heart" The Shirelles.

Shirley Owens, Doris Coley, Addie “Micki” Harris, e Beverly Lee, quattro studentesse di scuola superiore a Passaic, nel New Jersey, decisero nel 1958 di riunirsi in un gruppo vocale. Col nome The Poquellos composero una canzone, "I Met Him on a Sunday" partecipando a un concorso canoro. Notate le loro doti, Florence Greenberg si offrì di far loro da manager, ne cambiò il nome in The Shirelles e ne propose l'ingaggio alla Decca Records, con cui registrarono il pezzo di loro composizione che si posizionò nella classifica dei 50 migliori brani a livello nazionale. Quell'anno vide anche il loro debutto sul prestigioso palcoscenico dell'Apollo Theater.
Dopo due consecutivi passi falsi, l'anno successivo il quartetto entrò nei Top 20 di R&B con "Tonight's the Night", ma la grande popolarità arrivò nel 1961 con la canzone targata Goffin-King "Will You Love Me Tomorrow" che decretò le Shirelles il primo gruppo femminile di rock & roll di successo, aprendo la strada a molte formazioni vocali femminili – The Supremes, The Ronettes, The Crystals, The Chiffons e The Marvelettes fra le più popolari. La celebrità conquistata consentì il ripescaggio e la pubblicazione di brani in precedenza sottovalutati e il lancio di nuovi pezzi di successo come "Soldier Boy".
Nel 1963 le Shirelles contribuirono alla colonna sonora di "Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo" e fecero apprezzare al grande pubblico una ancora sconosciuta Dionne Warwick, che cantò col gruppo in sostituzione di due componenti costrette a lasciare temporaneamente per impegni matrimoniali. Frattanto venivano notate non solo dal pubblico ma anche da musicisti affermati. I loro motivi furono ripresi fra gli altri da Aretha Franklin, gli Yardbirds di Eric Clapton, The Mamas & the Papas, Smokey Robinson,Manfred Mann, Roberta Flack. Anche i Beatles(specialmente George Harrison), nella loro prima fase della carriera, si interessarono ai gruppi vocali femminili e in particolare alle Shirelles; facevano parte della loro scaletta dei concerti live motivi come "Will You Love Me Tomorrow", "Mama Said"e "Baby It's You" – quest'ultimo ripreso in sala d'incisione assieme a Boys (anch'esso del gruppo statunitense) e inserito nell'album "Please Please Me".
Nel 1967, Doris Coley lasciò il gruppo per dedicarsi alla famiglia, e le componenti rimaste decisero di continuare come trio che andò avanti fra registrazioni, apparizioni televisive e tournée. Anche la Owens abbandonò la formazione nel 1975 per proseguire nella carriera da solista, ma il suo vuoto fu colmato dal ritorno della Coley. Il 10 giugno 1982, nel corso di un'esibizione che il gruppo stava tenendo ad Atlanta, la Harris fu colpita da un attacco cardiaco fulminante e le compagne, profondamente scosse dall'accaduto, scelsero di ritirarsi dalle scene, e incisero per l'ultima volta l'anno successivo assieme a una Dionne Warwick all'apice del trionfo artistico...